Onde canterine

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di Irene Auletta

L’ho imparato vivendo insieme ad una figlia come te. 

La vita è davvero come un imprevedibile mare, con giorni di quiete, onde lente e morbide, con quella luce  tiepida che accarezza il cuore. Altri invece nascono già con onde alte, odore di tempesta e un’acqua  che sembra fatta di sola schiuma, sotto un cielo scuro.

Abbiamo imparato insieme a goderne di entrambi, perché così è la vita. Così è la nostra vita.

Ma dove recuperiamo quella gioia che non ci lascia tanto facilmente o che comunque torniamo a ricercare appena sentiamo che ci sfugge tra le dita, esattamente come quella sabbia tiepida su cui mi piace tanto passeggiare?

La ricerca della gioia dovrebbe, o potrebbe, essere quasi una missione di vita e, forse, lo è ancora di più per quelle storie trafitte da dolori forti, che accompagnano nella vita senza lasciarti mai. Insomma, avere un compagno di vita come il dolore che ogni tanto arriva a trovarti e’ una cosa, ma quando il compagno di viaggio diventa un ospite fisso che abita con te da anni e che non intende andarsene,  e’ necessario inventarsi qualcosa e tanto dipende da noi.

A seconda di come lo trattiamo, possiamo ritrovarci imprigionati per sempre oppure scoprici affascinati di fronte ad orizzonti inediti, capaci di insegnarci sempre qualcosa di nuovo.

Ci sono sicuramente diverse persone ed esperienze che negli anni mi hanno accompagnato e aiutato in questa interessante ricerca ma, prima di tutte, rimane sempre lei. Mia madre, ormai lontana, ma sempre vicinissima.

Ogni volta che ripesco la gioia dopo uno smarrimento, la ritrovo lì al mio fianco, a sussurrarmi parole di conforto. Le stesse che ci aiutano a rialzarci e che, ancora con le ginocchia sbucciate, ci fanno scoppiare in una risata, colma di gratitudine.

Da qualche mese hai ricominciato ad utilizzare la voce, per mesi rimasta chiusa in cassetti di triste malinconia. Ogni volta è una sorpresa ritrovare quella tua forza che ci hai insegnato ad amare, anche quando ci manda ai matti!

Stamane cantavi a voce alta e io, commossa, mi sono sentita piena di felicità. Per te, per me e per quel canto capace di dirlo ancora e ancora.

Il mare sa sempre brillare e non c’è nulla come un canto senza parole che possa farlo scoppiare di  splendore.

Fioreluna

3 commenti

di Irene Auletta

Non so se te lo ricordi, dice tuo nonno parlandomi di un recente incontro con un signore che abita nel suo stesso palazzo, c’era anche sua figlia, una ragazza che avrà più o meno la tua età. 

Sorrido. Certamente dalla prospettiva dei suoi novantun’anni i miei ultra sessanta gli fanno un baffo!

Ma forse è proprio questa la danza tra genitori e figli e oggi mi ritrovo a pensarti con immenso amore e con un candido stupore. Ma davvero sono ventotto? Tutto di te mi restituisce un’immagine difficile da far conciliare con quella di una giovane donna, quale sei anagraficamente. Il tuo aspetto da eterna ragazzina e quel tuo sorriso che nasconde tracce d’infanzia strappando a chi ti incontra un commento di tenerezza, ti fanno straordinariamente Te.

Eppure, nel confronto con le tue immagini del passato ti vedo diventata grande, ma soprattutto vedo cresciuta la nostra storia e ci vedo nella nostra danza particolare, di madre e figlia, diventate più grandi insieme. 

Per usare le stesse immagini del nonno, direi che potremmo guardarci come una ragazza grande e una ragazza piccola. Mi sembra che così ci possiamo stare.

Il bello di questi anni è che non hai mai smesso di stupirmi anche quando le montagne russe che abbiamo dovuto affrontare sono diventate particolarmente difficili da vivere. Cosa vorrei regalarti a parte quello che come ogni anno è in quel pacco speciale di sorprese pensato solo per te? 

Basta la salute! Quante volte abbiamo sentito dire questa frase che, per persone come te, diventa immediatamente intrinseca di una grande profondità e, più che basta la salute, mi verrebbe da augurarti ancora tanta salute, perché sappiamo bene che questo è il nostro filo leggero di paura e di speranza.

Lo sappiamo e con tuo padre ce lo siamo detti tante volte. Da anni siamo in equilibrio sia sul filo della disabilità che su quello della malattia. Succede a tante altre famiglie che, come noi incontrano la disabilità, ma decisamente questo binomio è parecchio bastardo. 

E allora, nel giorno del tuo compleanno, cara figlia mia, ti auguro salute, bellezza e la voglia di non perdere mai quella curiosità che ti spinge a imparare ogni giorno qualcosa di nuovo. 

Ti auguro fiumi di luce perchè le ombre possano, rimanendo abbagliate, restare lontane il più possibile.

Ti auguro colori, allegria, leggerezza che insieme diventino carezze magiche per alleggerire il tuo zaino di vita tanto pensante.

Da parte mia, tu lo sai bene, io rimarrò ancora e ancora una cercatrice instancabile  per trattenere quelle possibilità a te necessarie per continuare a fiorire. Ti prometto, come dono aggiunto, che rimarrò sempre, sempre, sempre incantata di fronte allo sbocciare di quel fiore lunare che da anni si illumina e ci illumina, riempiendoci gli occhi di meraviglia e il cuore di orgoglio.

Auguri Luna mia.

Gocce di libertà

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di Irene Auletta

Come siamo abili a trasformare il dolore in normalità!

Questo è l’esordio di tuo padre mentre ci troviamo riuniti insieme ad altre famiglie in una situazione, che da qualche anno attraversiamo, accompagnandoti a vivere un’esperienza terapeutica, di gioco, di divertimento, educativa, piena di tanta bellezza e possibilità.

Da sempre, nel mio quotidiano, mi misuro con la stessa ambivalenza dinanzi allo sguardo riflesso degli altri. Raramente gradevole.

Di sicuro qui è impossibile sentire estraneità e il peso della diversità, a volte insostenibile, sembra scomparire come per magia. Qui almeno non ci sentiamo sempre diverse e osservate come sotto una lente di ingrandimento, mi dice una madre mentre entrambe stiamo cercando di contenere i movimenti non sempre finalizzati delle nostre figlie.

Mi commuove e stupisce al tempo stesso la familiarità dei gesti, dei suoni, delle posture. Mani e braccia che contengono, consolano, abbracciano e resistono agli strattoni e alla tensione che tira e spinge ovunque. Corpi che rivendicano libertà e possibilità a volte con tanta confusione e scarsa comprensione della direzione desiderata.

Stasera rientrando verso il bungalow incrocio una madre impegnata a interrompere una difficile dinamica con sua figlia. Comportamenti dall’esterno incomprensibili e, a volte, difficili da decifrare anche per chi li sta vivendo in prima persona.

Accelero il passo cercando di diventare leggera, leggera, proprio per non interferire ulteriormente con l’evidente difficoltà ma, quando la signora mi guarda, stanca, le sorrido sperando che arrivi quella comprensione profonda più di una solidale stretta di mano.

Cosa desideri in questa vacanza tutta per te? E io, cosa desidero per te? In realtà tutto può racchiudersi nella frase che una giovane donna disabile mi disse anni fa quando le chiesi cosa potevo dire nel corso del mio incontro con i genitori, che stavo per incontrare in conferenza, sul tema dell’autonomia.

Di lasciarci vivere e libere, mi rispose senza alcuna esitazione. E allora, io desidero proprio questo per te figlia mia e spero di contagiarti incontrando il tuo stesso desiderio.

Gocce di libertà che, ai nostri instancabili occhi, diventano un mare ricco di possibilità.

Vuoi dire che ci ha preso Karen Blixen quando ha scritto che la cura per ogni cosa è l’acqua salata: sudore, lacrime o il mare?

Luna da lontano

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di Irene Auletta

Una delle cose più difficili con i figli disabili e’ guardarli da lontano, con uno sguardo capace di lasciare la contingenza del bisogno e della richiesta continua per assaporarne la possibilità della distanza.

Il nostro vicino vicino che, nel corso degli anni, accompagna sempre meno le nostre giornate, si è conquistato pian piano uno spazio di libertà reciproca ma, quando siamo insieme, solitamente riflette un tempo di sana solitudine che ci vede impegnate ognuna per conto suo.

In occasioni come queste invece, mentre tu sei in compagnia di altre persone, adulti, ragazzi e bambini, presa completamente dalla tua esperienza, mi capita di osservarti a distanza quando ci incrociamo nel centro vacanza e quasi sempre ti intercetto mentre sorridi.

E’ evidente la tua voglia di stare in gruppo, di curiosare ciò che ti accade intorno, di partecipare ai canti, quasi che le note sprigionate dagli occhi occupino appieno il posto delle tue parole assenti. Ogni volta ho la conferma che questa è la direzione giusta per te, nella possibilità di essere adulta anche per il fatto di vivere una dipendenza che non riguardi i tuoi genitori.

Ma la smetterò mai di commuovermi in queste situazioni? Credo di no e comunque … chissenefrega!

Reduce da settimane estive che hanno visto al centro la nostra vicinanza, la cura ricorsiva non stop, la voglia di stare insieme e la nostra innegabile fatica, qui ci prendiamo un tempo di respiro.

Io da te e tu da me. Si, a guardarla bene, il bisogno e’ proprio di entrambe esattamente come il desiderio e questo mi rende davvero felice.

Dopo una lontananza ci si può ritrovare più quiete, con la voglia di stare insieme e di raccontarsi. Così ti aspetto.

Ma oggi che tuffi hai fatto? Ti sei divertita? Sono davvero contenta. Ma sai che ti ho vista da lontano e ti ho trovata splendida?

Osservandoci forse e’ difficile capire quante cose belle stanno emergendo tra quelle due donne, sedute una di fronte all’altra, in silenzio. Noi abbiamo fatto tanta strada per arrivarci, non tramite le parole e il loro abuso continuo, ma attraverso le scintille nei nostri occhi che, incontrandosi, hanno imparato a narrarsi storie.

Il nostro gusto del bello, e’ tutto qui e lo teniamo stretto, stretto.

Joie de vivre

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di Irene Auletta

Che gran voglia di vivere che ha Luna!

Questo, da anni, e’ tra i commenti ricorrenti delle persone che, per breve o lungo tempo, ti hanno incontrata.

In queste parole ritrovo il tuo sorriso e la tua risata contagiosa, la tenacia con cui affronti prove per te non semplici, unita a quella curiosità che ti fa vivere e gustare le esperienze, con tanta allegria.

Ormai è per noi molto chiara la tua difficoltà ad attivare il mondo, con una tua scelta ed intenzione e, se chi ti circonda non ti aiuta, tristemente, ti spegni un po’.  

Fortunatamente, al tempo stesso, se le persone e il contesto intorno a te risultano ricchi, propositivi, interessanti, stimolanti e gustosi, tu sei sempre in prima fila, con una forza e intensità che non raramente sorprendono.

Per questo la disabilità grave non può  rimanere in luoghi professionalmente muti e ciechi. Per questo abbiamo tanto bisogno di competenza e passione educativa e non di buona volontà. Abbiamo bisogno di circondarci di vitalità, fantasia, creatività, passione e bellezza. E ne abbiamo un bisogno talmente grande, che ne va della vita, di quella che, andando ben oltre il trascorrere del tempo, merita ogni giorno di essere vissuta.

Sono peculiarità imprescindibili e oggi non semplici da trovare nei servizi e negli operatori ma, quando gli incontri svelano queste possibilità, e’ impossibile non accorgersene e restare passivamente a osservare. Lì, tutti respiriamo gioia a pieni polmoni.

Ma la voglia vivere e’ un fatto genetico o un risultato educativo? 

Con tuo padre non abbiamo dubbi sulla seconda opzione, pur non togliendo valore alle nostre personali eredità educative. Accade spesso che ci raccontiamo di quello che in questi anni abbiamo messo a tua disposizione, anche e soprattutto, andando oltre il tuo limite. D’altronde, come ci insegna Zygmunt Bauman, nella vita la ricerca della felicità non è per i deboli di cuore!

In questo tuo padre è stato maestro, indicandoci la via e potenziando tutte le possibilità di condurti altrove a scoprire il mondo per sperimentarne le molteplici possibilità.

Ti ricordi di quando? E quella volta che? Se penso a quel giorno che … Meglio che questa cosa a mamma non la raccontiamo subito!

Abbiamo seminato possibilità per una vita bella e siamo certi che il tuo cuore e’ troppo grande per essersi perso qualcosa. 

Anche la speranza deve avere un cuore leggero.

Luna, sei pronta per andare?

RiflettendoCi

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di Irene Auletta

La gente che ci vede ce lo chiede, ma voi chi siete?

Questa breve frase l’ho sentita diverse volte negli ultimi anni, in un ritornello cantato dagli operatori dei vari progetti TMA e in particolare, proprio di recente, l’ho ritrovata mentre il gruppo degli operatori, insieme ai bambini e ai ragazzi, attraversava il parco acquatico che da qualche anno accoglie e ospita le esperienze estive di settimane intensive TMA.

La gioiosità e la giocosità di questi operatori, ogni volta mi stupisce e mi sorprende nella loro capacità di accogliere e contenere il gruppo con il canto, accompagnando attività intense, mirate, profonde e mai casuali nelle intenzioni e nelle finalità educative e terapeutiche, prevalentemente in acqua, ma non solo.

In particolare questa frase mi raggiunge forte perchè da’ voce, in modo sereno e quasi felice, ad una domanda che evidentemente chi incontra la disabilità, come genitore o operatore, legge nello sguardo dell’altro.

Proprio stamattina mi è capitato di vedere il video di una mamma, che mi ha molto emozionata, raggiungendomi con una sottile onda di tristezza, di quella così profonda che quasi non ha un nome. Questa mamma riprende suo figlio disabile che arriva in un parchetto giochi e, appena lui si avvicina a delle attrezzature ludiche, pian piano tutti gli altri bambini si allontanano, lasciandolo da solo. Lei lo commenta con molta amarezza, ma senza perdere l’occasione di descriverla anche come esperienza abituale.

Due scene diverse, due immagini. A mio parere non una giusta e una sbagliata, una bella e una brutta, ma due scene diverse che riflettono gli sguardi che quotidianamente intercetta chi si trova al fianco di persone con disabilità. In realtà stamane il ritornello della canzone mi riempie della speranza di poter interpretare lo sguardo dell’altro, indipendentemente dalle intenzioni, connotandolo con elementi di curiosità, di non conoscenza, a volte anche di timore.  

Questo dire La gente che ci vede ce lo chiede, ma voi chi siete? … e  noi gli rispondiamo, prosegue il canto, potrebbe essere una bella indicazione per tutti noi che attraversiamo il mondo della disabilità, attraversati continuamente dagli sguardi che ci incontrano. 

Chi come me si occupa di cura, anche per professione, conosce bene il valore e l’effetto dello sguardo dell’altro sulla crescita e sui processi di riconoscimento della propria identità dei bambini e dei ragazzi. Sempre di più, negli anni, ho imparato quanto lo stesso sia imprescindibile anche per i genitori. 

I genitori che vivono l’esperienza della disabilità molto spesso nascono e crescono fortemente condizionati dallo sguardo dell’altro che sovente rischia di restituire prevalentemente gli aspetti di ombra, di mancanza, di sfortuna, di tristezza, di dispiacere. Allora la gioiosità del canto e di quella domanda rinnovata, mi fa intravedere altri aspetti dell’esperienza con la disabilità che possono brillare di curiosità, di stupore, di meraviglia, di leggerezza, di magia.

Quando in questi giorni ti guardo arrivare, serena, felice e sorridente, anche se zoppicante, colgo nel tuo sguardo la possibilità di aver vissuto qualcosa di bello, impegnativo, leggero, divertente, con persone diverse da noi genitori che possono scoprirti e farti scoprire in aspetti inediti, proprio grazie ai loro sguardi differenti.

Lì, in quel riflesso di novità, c’è tutta la gioia possibile. La raccolgo a piene mani e nel nostro abbraccio te la sussurro, in barba alle inevitabili ombre.

Eccoti qua, il mio altro pianeta preferito!

Prospettive d’amore

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di Irene Auletta

Mi piace sempre molto guardarti da lontano, osservando il tuo modo di stare nel mondo e nelle esperienze, quando non sei vicino a me.  Questi momenti sono sempre multicolor perché alla gioia, all’orgoglio e alla soddisfazione si intrecciano indissolubilmente tutti quei sentimenti che a distanza risultano quasi amplificati.

Da lontano ti vedo disabile, vedo le tue difficoltà, ai miei occhi esasperate, e intercetto tutti gli equilibrismi che ormai negli anni hai imparato a fare benissimo per stare nella tua vita.

Mi commuove sempre molto la tua tenacia, il tuo entusiasmo, la tua voglia di provare e riprovare. E allo stesso modo mi commuovono le tue resistenze quando tenti di esprimere la tua volontà o quando per me è evidente che non stai capendo cosa accade intorno a te o quale richiesta ti viene fatta. 

Da vicino, nei nostri incontri quotidiani e nella nostra vita, alcuni aspetti si dissolvono e per fortuna, quando ti guardo sei solo mia figlia, la mia dolce e meravigliosa Luna. Vorrei che il mondo ti vedesse anche così e forse questa possibilità è concessa a qualche incontro straordinario e a chi ha gli occhi sintonizzati con il cuore per poter guardare e guardarti. 

Mentre sto scrivendo, ti avvicini vicino vicino al mio viso come fai quando vuoi darmi qualcosa che assomiglia quanto più possibile a un bacio e, in questi casi, non perdiamo l’occasione per fare i nostri giochi d’amore in quelle prospettive che ci fanno Noi e ci danno il coraggio e la forza per esserlo ogni giorno. 

Allora te lo sussurro ancora una volta nel nostro linguaggio del cuore.  Guardami sempre così da vicino Luna affinché il mio sguardo, da lontano, impari ogni giorno e sempre di più a respirare e a farti respirare.

Contiamo fino a dieci

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di Irene Auletta

Ogni tanto fantastico che alcune frasi o domande, insieme ad alcune parole, possano scomparire dal lessico delle nostre conversazioni, soprattutto quando risultano evidentemente superficiali, frettolose e banali. L’elenco potrebbe essere parecchio articolato se includessi gli scambi che riguardano la disabilità di mia figlia, ma di questo ne ho già parlato parecchio altrove e per oggi passo.

Tra le varie opzioni comunicative assai ricorrenti, ho sviluppato una certa intolleranza verso le frasi più ripetute e che più ci sentiamo rivolgere, tipo Tutto bene? Come stai? Ci sono domande preziose e credo ancora che chiedere a una persona come sta, rientri indubbiamente fra queste, a patto che non diventi un intercalare per avviare una conversazione spesso orientata verso tutt’altro, oppure un modo per sostituire il buongiorno, già consapevoli del fatto che non abbiamo né tempo, e a volte neppure la voglia, di ascoltare la risposta.

Così, tutti complici, finiamo con l’impoverire il valore dei contenuti . 

Da molti anni ormai, a costo di sembrare poco educata o poco disponibile alla conversazione, ho scelto di non rispondere quasi mai a questo genere di domande. Le salto, le ignoro, faccio finta di non sentirle, le modifico a piacere sperando di inviare un messaggio chiaro all’interlocutore che comunque, nella gran maggioranza dei casi, incassa o insiste pur di sentirsi dire un sì sì tutto bene, grazie

Ma perché abbiamo questo bisogno, perché le parole perdono valore, perché perdono significato? Io ci tengo alle parole. Ci tengo perché quando chiedo a una persona come sta, lo faccio solo se posso mettermi in una posizione comoda per ascoltare ciò che ha voglia e piacere di raccontarmi. 

Vorrei che tutti noi facessimo più attenzione alle parole che usiamo e a quello che mettiamo nelle comunicazioni. Anche questo potrebbe diventare un interessante esercizio di rispetto comunicativo e relazionale.

Qualche giorno fa un genitore mi ha raccontato che, di fronte a reazioni impulsive molto forti del suo bambino di sei anni, gli ha suggerito di provare a contare fino a dieci per dare il tempo alle emozioni di trovare un luogo più quieto per tranquillizzarsi. Credo che questa potrebbe essere una regola d’oro per tante delle nostre comunicazioni e per quelle parole o frase di circostanza che non restituiscono giustizia al valore dei significati veri. 

Chi come me si occupa di educazione, per professione o passione, ha il dovere di pulire il vocabolario, di mettere ordine a quello che introduce nella conversazione e di confermare così un valore che sarebbe un peccato perdere scivolando sulla superficie della banalità comunicativa. 

Incontrarsi è ancora una dimensione preziosa dell’esistenza. Non perdiamoci di vista.

Quello che so

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di Irene Auletta

Non lo saprò mai come si modifica il rapporto tra una madre che si avvia verso la sua età matura e una figlia adulta. Non saprò quali sfumature assumerà la vecchiaia di questa madre e quali nuove scoperte potrebbe fare nella relazione con sua figlia.

Nelle diverse forme di genitorialità ci sono differenze che non si possono negare e tante volte quella frase superficiale e un po’ stucchevole, ti capisco, non restituisce valore alle esperienze individuali e alle peculiarità che si attraversano. 

Certamente non saprò mai cosa vuol dire diventare nonna, ma al momento, come dico da un po’ di anni, sinceramente questa non è nella mia lista delle cose da fare né l’avverto come necessità o desiderio. 

Ti osservo in piscina da dietro una vetrata esterna che consente di guardare senza essere visti. In genere sono i genitori dei piccoli o dei ragazzini che si prendono questo spazio e mi accorgo che forse, nel mio essere atipica, sto ritagliandomi una piccola nicchia speciale per poterti osservare. 

Ti sorrido da lontano nella mente e nel pensiero mi scopro a dirti forza Luna, forza che ce la fai tenendo un attimo il fiato sospeso quando l’istruttrice ti invita a salire sul piccolo trampolino e a tuffarti. Ti tuffi, scompari per qualche secondo sott’acqua e riemergi ridendo. E io respiro.  

Molte madri non sapranno mai che cosa accade in quel momento,  il misto di soddisfazione, timore, orgoglio, malinconia, gioia sfrenata, pizzichi di dolore e bellezza allo stato puro.

Al termine della lezione vengo a riprenderti e come sempre mi accoglie il tuo sorriso smagliante e tuo abbraccio bagnato. Provo a proporti sempre una piccola mediazione per evitare di uscire anch’io completamente inzuppata, pronta ad affrontare il tempo successivo che comprende la doccia, l’asciugatura dei capelli e il cambio. 

E’ un tempo lungo, impegnativo e faticoso e sono ben consapevole che questa, a parte le attività che svolgi con gli operatori, è una delle esperienze che non posso delegare a nessuno. Per quanti anni riuscirò ancora a farlo?

Scaccio via il pensiero e proviamo a raccontarci le cose belle come ce le raccontiamo noi, incuranti degli sguardi altrui che non possono capire perché non possono sapere. 

Mentre ci osservava nei nostri scambi mia madre, con uno sguardo molto amorevole, diceva spesso ‘a figlia muta ‘a mamma a capisc.

Questa la so.

La tragedia e l’educazione

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di Irene Auletta

Come molte persone nel mondo, sono rimasta senza fiato di fronte alla notizia che da ieri rimbalza nel web e che nominando Gaza, parla dello “strazio di Alaa, la pediatra che ha perso 9 dei suoi 10 figli in un raid”.

Di solito, di fronte a queste notizie, rimango silente e fatico a esprimere opinioni su questioni così complesse che richiedono una grande conoscenza e la capacità di trattenere superficiali commenti o esternazioni emotive, a mio parere, sovente un po’ fini a sé stessi. 

Ma stamane l’anima si smuove aprendo domande alle quali non trovo risposte di fronte a ciò che l’umano riesce a mettere in scena, costringendoci a non dimenticare la complicità di tanti in un’orrore difficile anche solo da nominare. Credo che per questo sia facile voltare la faccia altrove, oppure indignarsi senza intravedere direzioni possibili di azioni individuali.

Io riesco solo a pensare, molto in piccolo, a cosa posso fare, ogni giorno perchè ciò che sta accadendo, a Gaza e in altre parti del mondo, non rimanga uno sfondo della mia vita, ma si incarni in scelte, modalità comunicative e modi di stare al mondo e incontrare questa vita.

Stamane ho subito pensato a qualcosa di cui ho parlato proprio in questi giorni, in occasione di un evento culturale dedicato alla cura e alla necessità di assumere uno sguardo e una postura capaci di scegliere valori oggi assai poco di moda, per un’etica della cura che ci veda capaci di andare oltre il nostro interesse individuale per volgere lo sguardo verso chi sta attraversando sentieri esistenziali dissestati.

Lontana dai proclami, non posso non pensare a quanto ciò che accade può diventare occasione quotidiana per coloro che si occupano a vario titolo, personale o professionale, di educazione. Cosa possiamo continuare a insegnare ai bambini, ai giovani e agli adulti sui temi della vicinanza, della solidarietà, della comprensione, della gentilezza, e di quella creatività capace di sostituire la pretesa, l’arroganza, il lamento, l’individualismo a oltranza?

Cosa possiamo insegnare, non solo con le parole, ma attraverso le nostre scelte, le nostre azioni e i nostri comportamenti?

So che posso fare pochissimo e stamane il lenzuolo bianco, metafora del sudario di Gaza, vorrei che si stendesse su tante relazioni umane, personali e professionali, che ogni tanto mi pare abbiamo davvero perso la bussola rispetto a ciò che tutti noi dovremmo avere a cuore, prendendocene cura.

So per certo che provo a farlo da anni, in modo assolutamente imperfetto, ma l’urgenza mi arriva forte sostenendomi proprio in quella direzione. Fermiamoci tutte e tutti per favore. Fermiamoci un attimo solo e guardiamo a ciò che sta accadendo al nostro fianco e vicinissimo a noi. Solo così potremo dare un nostro autentico contributo, nel rispetto di chi, anche lontano, sta attraversando tragedie indicibili.

Per tutti quelli che invece riescono anche a fare altro, con azioni concrete capaci di andare nella stessa direzione, ma in modo molto più forte e potente, non posso che esprimere una profonda gratitudine.

Con riverenza.

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